Analizzando la reazione frammentata della politica ai recenti femminicidi e alla scorsa Giornata Internazionale per l'Eliminazione della Violenza contro le Donne, Tortuga ha avviato un'esplorazione dell'evidenza empirica sul tema in Italia. La diffusa violenza di genere, con un caso denunciato ogni 10.000 donne nel 2021, richiede una valutazione sistemica del fenomeno, radicato nelle istituzioni economiche, culturali e politiche del paese. La responsabilità di fornire supporto strutturale alle istituzioni sociali impegnate nella lotta contro la violenza di genere spetta alle istituzioni politiche, rappresentate dal governo eletto. Tra queste, i Centri Antiviolenza (Cav) sono presidi di libertà, accogliendo donne vittime di violenza. Tuttavia, queste strutture spesso affrontano sfide burocratiche e sono vincolate ai tempi delle manovre politiche di bilancio.
In Italia, i Cav sono presenti dal tardo 1980 come espressione della società civile e dei movimenti femministi. Nel 2013, sono stati istituzionalizzati per supportare le donne vittime di violenza. Secondo i dati Istat del 2018 e la mappatura del numero verde antiviolenza (1522), il numero di Cav è cresciuto a 396 nel 2021.
Tuttavia, il quadro completo dei Cav in Italia deve considerare non solo il numero di centri, ma anche il personale impiegato, la stabilità dei finanziamenti e i servizi offerti. Ciò evidenzia una distribuzione disomogenea sia in termini numerici che qualitativi sul territorio italiano.
La mancanza di Centri La Convenzione del Consiglio d'Europa del 2011 stabilisce che dovrebbe esserci un centro di supporto per le vittime di violenza ogni 50.000 donne. In Italia, attualmente, c'è un centro ogni 76.000 donne, evidenziando una carenza di 240 Centri antiviolenza per soddisfare i livelli minimi. La distribuzione non omogenea si manifesta con alcune regioni che superano gli standard, come l'Umbria, con un centro ogni 43.000 donne, e altre, come il Trentino, con uno ogni 250.000 donne.
Mancanza di figure professionali La presenza di un Centro antiviolenza non garantisce un'azione omogenea e continua. Secondo l'associazione nazionale Donne in Rete contro la Violenza, quasi la metà dei centri sono gestiti da enti la cui missione principale non è la lotta contro la violenza di genere. La distribuzione disuguale si riflette anche nel personale, con una media di 15 persone impiegate in ogni centro a livello nazionale, ma con variazioni significative nelle regioni.
Risorse insufficienti La sostenibilità finanziaria è cruciale, ma l'eterogeneità dell'operato dei Centri riflette i ritardi e le incertezze nel finanziamento. Nonostante uno stanziamento annuale di 31,4 milioni di euro dal Ministero per le Pari Opportunità, la gestione dei fondi è spesso caratterizzata da ritardi e distribuzione disomogenea. Il 32,8% dei Centri ha chiuso il 2021 con un bilancio negativo.
Riflettere sulle modalità di allocazione dei fondi e sull'accesso a diverse fonti di finanziamento è cruciale per valutare l'efficacia del sistema. La definizione di un Livello Essenziale delle Prestazioni (LEP) per i Centri antiviolenza è proposta come un passo fondamentale per garantire il supporto continuativo e incondizionato alle vittime di violenza su tutto il territorio nazionale.
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